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Provare a minimizzare gli effetti negativi del settore della moda sull’ambiente e sulla società non deve essere un onere esclusivo di noi, partecipanti (più o meno attivi) alla società del consumo, ma non dovremmo esimerci dal ritenerci almeno un po’ partecipi del cambiamento. Siamo tutti un pezzettino del puzzle, certamente di dimensioni differenti e, di conseguenza, con diverse potenzialità di apportare un cambiamento all’immagine generale che emerge. Tuttavia, guardando il puzzle un po’ più da lontano, ci possiamo facilmente rendere conto del fatto che tanti, piccoli contributi hanno potenzialità grandissime, soprattutto quando costituiscono la base (specialmente economica) per i grandi colossi che vorrebbero monopolizzare il puzzle per determinarne l’immagine complessiva. E se il cambiamento parte dal basso, come storicamente è (quasi) sempre successo, è anche vero che, in questo caso, parte anche dalle piccole cose, dalle azioni e dalle abitudini quotidiane. Oggi ci concentreremo proprio su alcune di queste.
Utilizzare materiali riciclati per creare nuovi capi di abbigliamento è il primo esempio di come si possa dare letteralmente una nuova vita ai tessuti. Un esempio virtuoso che vogliamo portarvi è quello di Teemill. La loro idea parte dalla volontà di creare una catena di approvvigionamento sostenibile e circolare per il settore della moda, e loro lo fanno puntando sulla produzione di prodotti realizzati da materiali naturali, come il cotone biologico, all’interno di impianti alimentati da energie rinnovabili. Allo stesso tempo, progettano i prodotti fin dall’inizio in modo da poter essere riciclati in seguito, mantenendo così i materiali fuori dalle discariche e inserendoli in un processo di riciclo continuo. Teemill nasce quindi dalla volontà di apportare un reale impatto e porre fine agli sprechi nell’industria della moda, condividendo questa tecnologia con tutti. Alcuni (pochi, dai) numeri: 34.906 kg di materiale organico recuperato e allontanato dalla discarica, prevenendo l’emissione di 1.125.971 kg di CO2 e risparmiando 697 milioni di litri d’acqua; 140,795 alberi piantati per ovviare alle emissioni di CO2, raggiungendo un bilancio netto di carbonio, con una riduzione di 5.062.172 kg di CO2 grazie all’uso di energie rinnovabili. Il servizio di print-on-demand permette di risparmiare, sia in termini di denaro che in termini di sprechi, producendo solamente il necessario e investendo tali risparmi in coltivazione di cotone biologico (evitando anche l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti) e nell’utilizzo di energie rinnovabili. Anche la robotica contribuisce in modo significativo, rendendo il processo di imballaggio più efficiente del 30%, rendendo accessibile l’utilizzo di imballaggi sostenibili biologici (composti da piante, e non da plastica) altrimenti troppo costosi. I risparmi che derivano dall’utilizzo di una supply chain integrata e digitalizzata vengono inoltre investiti da Teemill anche nel garantire alti standard di qualità nelle condizioni lavorative.
Il riciclo dei tessuti è sicuramente la prima azione che può venire in mente pensando a un’economia, appunto, circolare nell’ambito della moda. Tuttavia, esistono tante altre opzioni, che noi
vogliamo pensare come complementari e non come sostitutive delle altre. Partiamo con l’upcycling, pratica di moda sostenibile dove i materiali esistenti vengono trasformati in nuovi capi anziché essere semplicemente riciclati. Si tratta di una potenziale abitudine accessibile a tutti, o meglio, a tutti quelli che si sentono abbastanza creativi per ridurre gli sprechi. E se non vi sentite tali, sappiate che esistono validissime realtà che si occupano proprio del riutilizzo creativo dei capi usati.
Un’altra buona pratica è quella dell’etichettatura trasparente, che consentirebbe ai consumatori di conoscere l’origine e la produzione dei capi che acquistano, fornendo informazioni chiare e dettagliate sulle pratiche di produzione, e incoraggiando una maggiore consapevolezza in tal senso. Un esempio virtuoso è Make the Label Count, una coalizione che si occupa di insistere per far sì che la metodologia che l’UE intende utilizzare per misurare l’impatto ambientale dell’abbigliamento – la Product Environmental Footprint (PEF) – venga modificata in quanto incompleta, non tenendo conto di rinnovabilità, biodegradabilità, microplastiche, impatto totale dei combustibili fossili o impatto sociale. Dobbiamo pretendere di ottenere informazioni attendibili sulla composizione dei capi, verificando se questi siano prodotti con materiali rinnovabili e biodegradabili, se siano riutilizzabili e riciclabili, o se invece rischino di rilasciare microplastiche nell’ambiente.
Una pratica sicuramente in ampia diffusione, anche grazie a colossi come Vinted, è quella della moda second-hand e, perchè no, del noleggio. Sicuramente, è positivo
l’emergere di servizi di noleggio di abbigliamento e negozi di moda second-hand come alternative sostenibili al tradizionale modello di acquisto, ma per rendere la moda veramente circolare c’è bisogno di utilizzare questi servizi se necessario e non come alternativa economica allo shopping, come invece spesso accade (solo il 20% degli utenti di Vinted dichiara di utilizzare la piattaforma per ragioni di sostenibilità). Prima di utilizzare queste soluzioni, dovremmo riflettere sulle nostre abitudini, e in particolare sulla vera necessità di acquistare e sulla qualità di ciò che acquistiamo.
Infine, tutto ciò non può prescindere dalla presenza di grandi innovazioni tecnologiche, come l’uso di nuovi materiali biodegradabili, tecniche di produzione a basse emissioni di carbonio e tecnologie avanzate per il riciclo dei tessuti.
Non possiamo concludere questo articolo senza citare alcune piccole e altre grandi difficoltà che un cambiamento di abitudini collettivo può e deve affrontare. Per citarne alcuni: la disponibilità limitata di materiali sostenibili, i costi di produzione più elevati, le tecnologie non ancora adatte al riciclo di tutti i tessuti, i costi di vendita conseguentemente più elevati, la necessità di un cambiamento culturale intrinsecamente lento, e tanti altri. Non può dipendere tutto da noi, è chiaro, ma non possiamo pensare perciò di avere il diritto di deresponsabilizzarci completamente. Se da un lato si stanno facendo progressi tecnologici e di pensiero, parlando sempre di più di sostenibilità in ambito moda nel panorama anche politico, l’educazione dei consumatori deve essere il primo passo, senza il quale è impensabile andare avanti. Informarsi attivamente sulle pratiche delle aziende, fare scelte consapevoli e influenzare positivamente l’industria attraverso il proprio potere d’acquisto sono, molto sinteticamente, alcune delle azioni che tutti dovremmo compiere consapevolemente, come buona pratica e abitudine. Chiaramente, esistono molti esempi di marketing ingannevole, a partire dal greenwashing, volto a far apparire un’azienda più sostenibile di quanto sia effettivamente e attirare conseguentemente i consumatori più disattenti, quasi attratti da una finta trasparenza, in questi casi ancora più a discapito della sostenibilità.
Nei prossimi articoli approfondiremo maggiormente alcune delle buone pratiche qui citate: utilizzo di tessuti ecosostenibili, etichettatura trasparente, tecniche di lavaggio, upcycling e accenneremo anche ad alcune buone e divertenti pratiche del fai-da-te (DIY, do-it-yourself).
Hasta luego!
Teo 🙂
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